Spesso mi viene posta questa domanda: “qual è la differenza tra temperamento, carattere e personalità?”

E ancora: “Il carattere è ereditario o dipende dall’ambiente in cui si cresce?”

Cercherò di fare sinteticamente un po’ di chiarezza.

Ogni persona ha sin dalla nascita un fondamento biologico: il patrimonio organico innato che ciascuno riceve attraverso la trasmissione ereditaria (costituzione ereditaria), da cui derivano le forme e proporzioni del corpo (costituzione morfologica) e le modalità di funzioni vitali (circolatoria, respiratoria, digestiva, ecc.) dipendenti dal sistema nervoso e endocrino (costituzione fisiologica).

Il complesso di questi elementi determina una iniziale struttura psichica o temperamento.

Perché “iniziale”? Perché al condizionamento dei fattori ereditari si deve aggiungere quello dovuto ai fattori ambientali, che interessa tutta la vita del soggetto. La personalità è frutto di questi condizionamenti e della reazione a questi condizionamenti.

Con la parola temperamento s’intende la risposta psichica naturale al corredo organico ereditario: essa esprime impulsi, tendenze istintive, disposizioni, necessità, stati affettivi…

Il carattere invece è frutto dell’iniziativa del soggetto sotto l’influsso dell’ambiente. Nel bambino il carattere non si distingue ancora dal temperamento, la decisione non si distingue dall’impulso, i processi di inibizione sono poco sviluppati, gli schemi mentali sono troppo semplici, ecc.

La personalità invece, non solo unifica gli aspetti biologici del temperamento e quelli psichici del carattere, influenzati dall’ambiente; ma crea anche valori, modelli di comportamento, forme di organizzazione sociale in grado di modificare l’ambiente e la stessa personalità. Lo sviluppo della personalità comporta l’interazione tra fattori costituzionali innati, fattori educativi, ambientali e culturali.

La dipendenza da internet implica l’ossessione e la compulsione per l’utilizzo del web e la difficoltà a scollegarsene, con notevoli disagi sulla qualità di vita della persona.

La dipendenza da internet è un problema sempre più diffuso soprattutto tra i giovani. Se da un lato le evoluzioni tipiche delle nuove scoperte migliorano la qualità della vita delle persone; dall’altro, un cattivo uso delle stesse è causa di notevoli disagi con ripercussioni sulla vita personale, lavorativa o scolastica. Non fanno eccezioni le scoperte tecnologiche e in modo particolare l’utilizzo di internet, che ha prodotto in modo dilagante una nuova forma di dipendenza meglio conosciuta come IAD: Internet Addicition Disorder.

Le nuove dipendenze

Le dipendenze senza sostanza, si riferiscono a una vasta gamma di comportamenti anomali: tra esse possiamo considerare lo shopping compulsivo, il gioco d’azzardo patologico, la dipendenza da TV e da serie TV, la dipendenza da smartphone o da internet, le dipendenze dal sesso e dalle relazioni affettive, le dipendenze dal lavoro.

La dipendenza da internet è legata alla difficoltà nel controllo degli impulsi e a gestire stati emotivi dolorosi. Ad essere problematico non è di per sé il comportamento ma la compulsione e l’ossessione nell’attivarlo e la difficoltà o impossibilità a cessarlo. Le persone affette dalla dipendenza da internet infatti, dedicano un tempo prolungato all’utilizzo della rete che può arrivare anche a 40-50 o più ore a settimana. Il comportamento non è scevro da conseguenze. Di fatti, oltre a notevoli vissuti di colpa per aver perso tanto tempo al computer, la persona dipendente trascura il lavoro, gli affetti familiari, le relazioni sociali, lo studio e il proprio benessere psicofisico in genere.

I sintomi

Secondo il neuroscienziato E. Goldberg, è necessario che siano presenti i seguenti sintomi per poter fare una diagnosi di IAD:

  1. bisogno di trascorrere un tempo sempre maggiore in rete per ottenere soddisfazione;
  2. marcata riduzione di interesse per altre attività che non siano legate a Internet;
  3. sviluppo, dopo la sospensione o diminuzione dell’uso della rete, di agitazione psicomotoria, ansia, depressione, pensieri ossessivi su cosa accade on-line, classici sintomi dovuti all’astinenza;
  4. necessità di accedere alla rete sempre più frequentemente o per periodi più prolungati rispetto all’intenzione iniziale;
  5. impossibilità di interrompere o tenere sotto controllo l’uso di Internet;
  6. dispendio di grande quantità di tempo in attività correlate alla rete;
  7. continuare a utilizzare Internet nonostante la consapevolezza di problemi fisici, sociali, lavorativi o psicologici recati dalla rete.

Chi si fa inghiottire dalla “macchina tecnologica” sembra avere la necessità di crearsi una seconda pelle o una realtà diversa, maggiormente appagante, seppur in modo illusorio, al fine di rendere più tollerabile un mondo vissuto come frustrante, in cui i bisogni e i desideri non trovano mai un’immediata realizzazione. Tale attaccamento nei confronti della rete sembra essere maggiormente frequente nei soggetti che stanno vivendo o hanno subito degli eventi di vita sfavorevoli, oppure che presentano già dei disagi psichici (depressione, disturbo ossessivo-compulsivo, gioco d’azzardo patologico, ecc.). È facile intuire come, di fronte a un male sempre più dilagante, i professionisti della salute mentale si siano dedicati allo studio di nuove terapie per curare la Internet dipendenza. Così, oltre alla psicoterapia classica in presenza, si sta diffondendo sempre di più la psicoterapia on line. Tale pratica, potrebbe essere un valido modo per avvicinare i navigatori dipendenti per poi aiutarli a uscire dalla rete.

Per saperne di più sulla dipendenza da smartphone: nomofobia

 

Per sindrome di Munchausen si intende un disturbo psichiatrico in cui i pazienti fingono o si provocano malattie e lesioni complesse per attirare l’attenzione di medici e familiari.  Queste persone sono coscienti delle proprie azioni e sanno di fingere una sintomatologia ma non riescono a spiegarne il motivo.
L’origine del nome deriva dal Barone di Munchausen, vissuto nella seconda metà del 1700 e divenuto famoso a causa della sua tendenza a raccontare storie fantastiche e poco credibili su se stesso.
Nel 1951, Asher introdusse il termine di sindrome di Munchausen, per descrivere quei pazienti che raccontano storie cliniche con sintomi fittizi e evidenze di malattia per nulla convincenti, disposti a sottomettersi a continui check up sanitari, operazioni e trattamenti non necessari, mettendo a rischio la loro stessa vita.

Diagnosi differenziale

A differenza dell’isteria, in cui resta incosciente sia il sintomo che la sua origine, nella sindrome di Munchausen la produzione dei sintomi è cosciente, mentre le motivazioni restano inconsce. I pazienti affetti da questa patologia hanno tratti masochistici e morbosità, fobie, necessità di affetto, attenzione, protezione, hanno bisogno di stare al centro delle preoccupazioni delle persone per loro importanti. Questi pazienti, pur essendo coscienti di fingere dei sintomi, lo fanno per necessità e senza capirne il motivo. È questo il tratto più distintivo della sindrome di Munchausen.
La sindrome di Munchausen va distinta anche dagli atti di simulazione in cui la persona è perfettamente cosciente di fingersi malata e lo fa per ottenere dei benefici indiretti, come ad esempio evitare gli esami o sfuggire alla giustizia.

Criteri diagnostici

  • Malattie, lesioni, ed altre condizioni patologiche simulate o auto provocate.
  • Falsità nella storia che è drammatica ma credibile.
  • Volontà di sottoporsi ad analisi cliniche e check-up.
  • Descrizioni di patologie molto stereotipate, simili a quelli che appaiono sui libri di testo.
  • Comportamento aggressivo ed elusivo.
  • Ricoveri multipli.
  • Dimissioni premature dagli ospedali.
  • Scarso ascolto dei consigli medici.

È molto complicato diagnosticare questa patologia, poiché è difficile riconoscere i sintomi fittizi dai reali problemi fisici. Una volta scoperti, questi pazienti vanno in un altro ospedale a ripetere tutto il processo.

Quadro clinico

Le manifestazioni cliniche che questi pazienti possono presentare sono molto varie, pertanto non è possibile parlare di forme cliniche tipiche. Tuttavia alcune di queste sono abbastanza ricorrenti:

  • febbre inspiegabile anche superiore al 41 gradi,
  • conoscenza della routine ospedaliera,
  • infezioni autoindotte attraverso iniezioni o applicazione locale di tossine o altre sostanze,
  • dolore persistente di origine ignota.

Molto spesso prima dell’esame psichiatrico non si trovano relazioni tra i sintomi fisici di questi pazienti e il disturbo mentale, segno di uno scarso riconoscimento della malattia da parte dei medici.
La presenza di risultati esageratamente positivi nelle analisi cliniche insieme alla sconcertante normalità di altre, può servire come indizio per sospettare la presenza della sindrome di Munchausen.

Trattamento 


La terapia di questa sindrome è ancora più complessa della sua diagnosi.
È giusto far confrontare il paziente con la sua situazione per iniziare ad esplorare le ragioni del suo comportamento.
È necessario incrementare l’autostima e combattere i comportamenti fobici, masochistici, sadici, dipendenti e insicuri che questi pazienti presentano. Il miglior modo di combattere questa patologia è un equipe terapeutica di medici, psichiatri e psicologi.
La prognosi della sindrome di Munchausen è migliore in coloro che hanno appena iniziato a manifestare i sintomi e possono contare sulla cooperazione della famiglia.  Esistono anche pazienti incurabili poiché c’è una mortalità potenziale associata a questa patologia. Una variante nuova di questa sindrome consiste nell’auto iniettarsi il virus dell’ HIV per provocarsi l’AIDS.
Purtroppo è più semplice diagnosticare questi pazienti dopo una lunga evoluzione della malattia, che prevenirla. come qualsiasi altro percorso psicoterapeutico è fondamentale la volontà del paziente di guarire per mantenere nel tempo una adeguata alleanza terapeutica.

Sindrome di Munchausen Per Procura (MSP)

Negli ultimi anni è aumentata la percentuale di casi nei bambini. È un vero e proprio abuso infantile, in cui i sintomi di malattia vengono causati dai genitori (principalmente la madre). Le madri di questi bambini soffrono di gravi problemi emozionali e spesso hanno una buona conoscenza della medicina. In assenza dei genitori, durante il ricovero ospedaliero, i sintomi migliorano drasticamente, per poi ripresentarsi con il ritorno a casa.

 

Un articolo tratto dal sito Efficacemente sulla dipendenza da cellulare.

 

“Il prezzo di qualsiasi cosa è la quantità di vita che dai in cambio per averla.”

H. D. Thoreau.

 

Domanda.

Immagina di essere costretto a scegliere tra: un osso rotto o il cellulare rotto.

Cosa sceglieresti?

Beh, qualsiasi persona sana di mente opterebbe per il cellulare rotto, giusto?!

…e invece no.

In una ricerca condotta da Adam Alter, professore della NYU e autore di “Irresistible: why we can’t stop checking, scrolling, clicking and watching“, è emerso che alla domanda “osso o cellulare rotto“, il 46% ha optato per l’osso rotto e anche il 54% “sano di mente” che ha scelto di sacrificare il proprio smartphone, lo ha fatto a malincuore.

La diffusione di massa degli smartphone sta generando tutta una serie di disturbi che vengono classificati dagli specialisti come delle vere e proprie malattie mentali.

La nomofobia fa parte delle nuove dipendenze, o dipendenze senza sostanze, tra cui la dipendenza da internet (IAD – Internet Addiction Disorder), il vamping, like addiction, challenge, il gioco d’azzardo patologico (GAP), ecc.

  • Cos’è (definizione ed etimologia)
  • Quali sono i suoi sintomi

Nomofobia: etimologia e significato

nomofobia significato

Il termine “nomofobia” è stato utilizzato per la prima volta in un rapporto ufficiale dell’ente di ricerca britannico YouGov e significa letteralmente: “no-mobile-phone phobia“, ovvero la paura incontrollata (fobia) di non avere accesso alle rete di telefonia mobile.

Nello specifico, dallo studio della YouGov è emerso che:

  • Il 53% dei possessori di smartphone vive un vero e proprio stato di ansia quando “perde il proprio cellulare, esaurisce la batteria o il credito residuo o non ha copertura di rete”.
  • il 58% di uomini e il 48% di donne soffrono di questa moderna fobia.
  • Il 55% dei partecipanti allo studio ha indicato come causa principale del proprio stato ansioso “il bisogno di tenersi in contatto con amici e familiari”, mentre solo il 10% ha dichiarato di dover essere rintracciabile in ogni momento per questioni lavorative.

Se questi dati ti sembrano impressionanti, allacciati le cinture, perché i ricercatori della YouGov hanno scoperto qualcosa di ancor più sconvolgente…

I livelli di stress misurati nei soggetti che soffrono di nomofobia sono molto simili a quelli generati dalla “tremarella del giorno delle nozze” o dall’odontofobia, ovvero la paura del dentista.

È ufficiale: siamo dei drogati da cellulare.

No guarda Andre’, parla per te: io non ho di questi problemi. La tecnologia è a mio servizio e non viceversa!

Sei sicuro?

Perché io invece scommetto che hai provato, almeno una volta nella tua vita, uno di questi sintomi tipici di un nomofobico…

I 10 sintomi della dipendenza da smartphone

nomofobia sintomi

Ecco i sintomi classici di chi soffre di un livello, più o meno acuto, di nomofobia.

Il nomofobico D.O.C.

  1. Porta sempre con sé un caricabatterie o una powerbank per evitare che lo smartphone si scarichi.
  2. Controlla frequentemente il cellulare per vedere se ha ricevuto messaggi o chiamate.
  3. Soffre della sindrome dello squillo fantasma, ovvero è convinto di sentire vibrazioni o notifiche (inesistenti), quando porta il cellulare nelle tasche o nella borsa.
  4. Controlla costantemente il livello della batteria prima di una chiamata importante.
  5. Se ha un abbonamento ricaricabile, si assicura che ci sia sempre credito sul suo numero.
  6. Ha più di un dispositivo o ha dato ad amici e familiari un numero alternativo per essere contattato in caso di furto, rottura o perdita dello smartphone.
  7. Tiene il cellulare sempre acceso, anche di notte.
  8. Non va mai al bagno senza smartphone.
  9. Va in panico quando non riesce a trovare la sua “tavoletta digitale”.
  10. Fa di tutto per trovare campo nei luoghi dove la ricezione è scarsa.

Ammettilo: la situazione è un pelino peggiore di quanto avessi pensato, vero?

 

Nei prossimi minuti ti spiegherò, passo passo, come liberarti della nomofobia, applicando 3 strategie estremamente pratiche e basate sui più recenti studi scientifici.

1. Cambia questa parolina nel tuo vocabolario mentale

nomofobia vocabolario

Non siamo mica deficienti.

Tutti noi, a volte, ci rendiamo conto che stiamo utilizzando il nostro cellulare decisamente troppo.

…e allora cosa ci diciamo?

Devo smetterla di controllarlo”, “Non devo più usarlo prima di andare a dormire”, “Devo giocare meno col cellulare quando studio/lavoro”, “Devo, devo, devo…”.

Usare la parolina “devo” per motivarci a fare qualcosa è la peggiore scelta possibile.

In fondo siamo dei ribelli: non amiamo fare quello che ci viene imposto (anche se a imporlo siamo noi stessi).

La motivazione nasce sempre da una scelta.

La prossima volta che ti ritrovi ad abusare del tuo cellulare, prova a cambiare il tuo linguaggio mentale utilizzando frasi di questo tipo:

  • Voglio smettere di controllare lo smartphone ora“.
  • “Non voglio usare il cellulare prima di andare a dormire, non sono quel tipo di persona”.
  • Voglio giocare meno con il cellulare quando studio/lavoro”.
  • Voglio, voglio, v0glio…”

Si tratta di un cambiamento microscopico, ma può avere risultati sorprendenti (e non funziona solo con la nomofobia).

2. “Lontano dagli occhi, lontano dal cuore”

nomofobia lontano

Probabilmente conoscerai il detto:

“Lontano dagli occhi, lontano dal cuore”.

 

Una delle strategie più efficaci per combattere la dipendenza da smartphone potrebbe essere anche una delle più semplici.

Quando non hai necessità di utilizzare il tuo cellulare (ovvero nel 99,7% dei casi), mettilo in un posto che non sia a portata di mano.

Insomma, niente smartphone di fianco al libro mentre studi o sulla scrivania mentre lavori.

Mettilo piuttosto in un cassetto, nella tasca della giacca, in borsa, in un’altra stanza… in una ca**o di cassaforte in fondo alla Fossa delle Marianne se necessario!

3. Datti una regola(ta)

Vediamo se questa scena ti è familiare: sei a letto, decidi di controllare lo smartphone solo “5 secondi” e poi accade questo…

La scena che hai appena visto (e che probabilmente hai anche vissuto) ha un nome scientifico ben preciso: si chiama “ciclo ludico“.

In pratica ti riprometti di dare una “controllatina veloce” al cellulare e così apri la prima app (che so, Facebook); controllate le notifiche e il newsfeed di Faccialibro, passi alla seconda app, poi alla terza e così via.

Concluso il primo round, saranno sicuramente arrivate nuove notifiche nella prima app e così il ciclo ricomincia e le ore passano senza che tu te ne accorga.

Ma perché non riusciamo a smettere?!

Secondo la ricercatrice Natasha Schüll, durante il “ciclo ludico” la nostra mente entra in una sorta di trance in cui continua a ripetere attività che creano dipendenza grazie al rilascio di dopamina (es. controllare nuove notifiche).

Solo quando raggiungiamo la saturazione (se non addirittura la nausea) veniamo risvegliati da questo stato di trance.

Il problema è che sono passati uno zilione di minuti e noi abbiamo procrastinato viulentemente attività che avrebbero davvero contribuito alla realizzazione dei nostri sogni.

Che fare in questi casi?!

Il metodo più efficace per uscire dal “ciclo ludico” è quello di decidere a priori quanto tempo dedicheremo alle distrazioni, magari impostando un timer prima di iniziare la “sagra delle notifiche”.

Se la soluzione del timer ti sembra un po’ troppo “soffocante”, ho pensato ad un’alternativa che potrebbe essere utile ad entrambi…

Original Article

SalvaSalva

Per molto tempo, nell’ambito delle ricerche in psicologia economica si è creduto che la nostra maniera di reagire di fronte a certi fatti ed esperienze, corrisponde a quanto queste sono oggettivamente positive o negative per noi.
Che cosa si intende per “oggettivamente” positivo? In questo caso ci si riferisce ad un risultato che ci fa guadagnare in sicurezza, riconoscimento sociale e probabilità di ricevere stimoli piacevoli, arrivando a compensare gli sforzi, le risorse e il tempo impiegato nell’ottenere quel risultato. In altre parole, il risultato positivo si svincola da una logica economicista e razionale, quello che ci motiva è direttamente proporzionale alla quantità del valore che attribuiamo alle risorse che otteniamo.

Applicando il senso comune alle Olimpiadi

Una medaglia d’oro ci farà sempre reagire in modo più positivo rispetto ad una medaglia d’argento, perché il suo valore oggettivo è maggiore: di fatto, la sua unica utilità è quella di essere un oggetto di valore maggiore rispetto agli altri trofei. Tutti gli sportivi credono che una medaglia d’oro è migliore di una d’argento o di bronzo, si pensa logicamente che il grado di felicità e di euforia che sperimentano nel vincere le prime due, sia maggiore di quello che provano vincendo il bronzo.
Questo presupposto, tuttavia, è stato messo in discussione molte volte negli ultimi decenni, dopo che varie ricerche hanno mostrato che non sempre si reagisce in modo razionale quando dobbiamo dare un valore ai nostri traguardi o ai risultati delle nostre decisioni, anche quando queste non sono ancora state prese e si sta prevedendo quello che può succedere se si sceglie una opzione piuttosto che un’altra.

Nel 1995, alla Olimpiadi di Barcellona è stata condotta una ricerca pubblicata in “Journal of personality and social psychology”, basata sulle espressioni facciali degli atleti dopo la vittoria, .

In questa ricerca si volevano paragonare le reazioni dei vincitori di una medaglia d’argento con quelle dei vincitori di un bronzo per definire in che misura il grado di rabbia o di gioia corrispondeva al valore oggettivo del trofeo.

Per realizzare lo studio si è partiti dal presupposto che “gli occhi sono lo specchio dell’anima”: si sono prese come punto di riferimento le espressioni facciali dei vincitori.

Un gruppo di studenti doveva decidere in maniera approssimativa qual era secondo loro lo stato emotivo della persona, senza sapere quale medaglia avessero vinto realmente.

È chiaro che c’è sempre la possibilità che una persona menta, però lo sforzo e la dedizione degli sportivi di alto livello fanno in modo che sia poco probabile: la tensione e la carica emotiva associata a questo tipo di competizione sono così alte che l’autocontrollo diretto a regolare l’espressione facciale, diventi più debole. Pertanto, le loro espressioni e gesti dovrebbero essere relativamente affidabili.

Gli studenti hanno assegnato un punteggio su una scala da 1 a 10 alle reazioni degli sportivi subito dopo aver saputo della vittoria e durante la cerimonia di premiazione. Dando punteggi più bassi agli atleti che apparivano più delusi o non soddisfatti e punteggi maggiori a chi esprimeva più gioia.

Argento o bronzo?

I risultati ottenuti dai ricercatori sono stati sorprendenti. Contro quello che direbbe il senso comune, gli atleti che hanno vinto una medaglia d’argento non si mostravano più contenti di quelli che avevano ottenuto il bronzo. Di fatto, accadeva esattamente il contrario.

Partendo dalle immagini registrate subito dopo aver saputo i risultati, gli sportivi vincitori della medaglia d’argento hanno ottenuto un punteggio medio di 4,8 su 10, mentre il gruppo che ha vinto un bronzo ha avuto una media di 7,1. A punteggio più alto corrisponde maggiore gioia espressa. Lo stesso risultato è stato ottenuto anche con i punteggi realizzati sulle immagine della cerimonia di premiazione. I punteggi sono stati di 4,3 per i medagliati d’argento e 5,7 per quelli di bronzo. Continuava ad apparire più felice chi aveva vinto la medaglia di bronzo.

Che cosa era successo? Possibili ipotesi di questo fenomeno

La possibile spiegazione di questo fenomeno è data dal fatto che l’essere umano non valuta oggettivamente i suoi traguardi, ma ha a che fare con i paragoni e le aspettative del contesto di riferimento. Gli sportivi che hanno vinto la medaglia d’argento alle olimpiadi avevano mancato la medaglia d’oro mentre quelli che avevano ricevuto il bronzo avevano rischiato di non vincere nulla.  Se si innesca questo di tipo di pensiero “se avessi” si possono originare distorsioni della realtà che se prese in modo ossessivo causano sensi di colpa, sconfitta e vergogna. La reazione di tipo emotivo, pertanto, ha molto a che fare con l’alternativa immaginata: i medagliati d’argento possono arrivare a torturarsi pensando a che cosa sarebbe potuto succedere se si fossero sforzati un po’ di più o se avessero preso un’altra decisione, mentre quelli che vincono una medaglia di bronzo pensano all’alternativa peggiore di non vincere nulla, dato che questo è lo scenario più vicino alla loro situazione reale e con maggiori implicazioni emotive.

https://psicologiaymente.net/psicologia/medallistas-bronce-mas-felices-plata#!